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Life. Vita.

Quando nel 1965 la rivista americana Life pubblicò il saggio fotografico “Drama of Life Before Birth” dello svedese Lennart Nilsson, il numero divenne così popolare che in pochi giorni andò esaurito.
Questo avvenne perché quelle immagini rivelavano per la prima volta nella storia dell’umanità la formazione della vita il cui mistero sino a quel momento era rimasto custodito nei grembi materni. Oggi, quel mistero non è più tale poiché la tecnologia e le indagini prenatali ci hanno abituati a conoscere le fattezze dei nostri figli sin dai loro primi battiti di vita. Ma di tanto in tanto vi assicuro che vale la pena tornare a osservare quegli scatti provando a uscire dallo spirito dell’archeologo che spolvera cose già viste, ma avendo lo stesso sguardo pieno di meraviglia che a suo tempo ebbe il fotografo nel documentare quella scoperta. Poiché di scoperta si trattava.
Un processo simile a quello dei grandi esploratori dei secoli precedenti, dei viaggiatori che si muovevano animati dal desiderio di attraversare l’ignoto e approdare oltre i mari, oltre le montagne, oltre le foreste verso terre nuove e nuove popolazioni e culture. Simile a quello dei ricercatori, degli scienziati, dei fisici, dei chimici, dei chirurghi che sulla scorta dei propri studi hanno donato e donano all’umanità quella scoperta o quell’invenzione o quella
cura che le permette di progredire. Poter osservare per la prima volta nella storia quel processo che giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, porta alla formazione quindi alla nascita dell’essere umano, deve essere stato molto più potente dell’emozione di vedere il primo uomo posare i piedi sulla Luna. Per il suo lavoro Nilsson è stato considerato un genio, ma lui si riteneva solo un fotografo a cui era capitato di sentire e provare un enorme fascino per il genere umano. Ed è proprio questo fascino per noi stessi che dobbiamo trovare il modo di ripristinare poiché noi siamo la migliore delle tecnologie esistenti sul pianeta Terra.

Perché uso “tecnologia” per definire l’uomo? Perché questa parola derivante dal greco, composta da “techne”, cioè “arte, abilità”, e da “loghia”, cioè “discorso, spiegazione”, solo intorno al XVII secolo, cioè con la nascita della scienza moderna, ha iniziato ad avere lo stesso significato della parola “tecnica”, ma originariamente rappresentava i processi naturali di trasformazione che tutti gli esseri viventi, animali compresi, operano per adattare l’ambiente alle proprie esigenze. Per finire, negli ultimi decenni, cioè da quando nella nostra quotidianità sono entrati tutti quegli oggetti provenienti dal mercato dell’elettronica e del digitale, con l’identificarsi con gli oggetti stessi. Ma la tecnologia non è lo smartphone o l’App.

La tecnologia è la spiegazione di una abilità. E lo smartphone e le App sono il frutto delle nostre abilità.

Certo, molti oggetti ci facilitano la vita, altri addirittura ce la salvano. Ma tra gli uni e gli altri esistono molti esempi di dispositivi inutili e perfino “disutili” e pericolosi.
E più passi facciamo verso un mondo sempre più complesso e connesso, meno facile sarà distinguere gli uni dagli altri. Perché? Per la stessa ragione che in pochi anni ci ha portati a vedere senza più meravigliarci le immagini della nascita della vita. Le ecografie, necessarie per mille ragioni, ci hanno però abituati a considerare normale quel che in realtà è sempre un’esperienza unica, banalizzando quel che banale non è. Altrettanto abbiamo fatto con la possibilità di parlare con chiunque nel mondo, di comprare da qualsiasi venditore qualunque prodotto, di sapere cosa succede in un dato momento ovunque la nostra curiosità ci voglia spingere, di ascoltare libri letti da qualcun altro, di contare i passi, le falcate, i gradini sulle strade che percorriamo. Non c’è nulla di male in questo, inizia a esservene nel momento in cui capita di accorgerci che a quelle persone che abbiamo scelto nella dimensione virtuale non daremo mai spazio tra gli amici reali, o che quell’indumento che ci siamo fatti spedire dall’altro capo del mondo resterà sepolto in qualche cassetto o finirà direttamente tra i rifiuti. Cioè quando capiamo di avere impiegato tempo, energie, denaro quindi risorse, senza uno scopo e per di più inquinando. Cioè compromettendo il futuro di tutti.

La posizione in cui ci troviamo attualmente è davanti a un’immensa vetrata aperta su un oceano di potenzialità affascinati perché teoricamente promettono di rendere la nostra vita migliore. Ma cosa differenzia una promessa che resta tale da una che invece viene mantenuta? La risposta siamo noi. Siamo noi i responsabili dei risultati.

La storia ci insegna che gli effetti di un dispositivo dipendono dall’uso che ne facciamo.

Per fare un esempio, nel ventesimo secolo i simboli della Rivoluzione industriale, treni, radio, televisione, automobili, elettricità, furono sfruttati in alcuni casi per instaurare e rafforzare regimi o dittature, ma diventarono anche i fondamenti infrastrutturali delle democrazie liberali. Le stesse radio e televisione, in alcuni casi sono servite a fare il lavaggio del cervello ad alcune popolazione mentre in altri ad aprire le menti a una pluralità di notizie e opinioni. Non sono stati certo questi dispositivi a essere responsabili dello scopo per il quale sono stati usati.

È sempre l’uomo che determina lo scopo.

Anche Internet e le tecnologie digitali più moderne si possono impiegare per aiutare le persone che si trovano a grandi distanze a connettersi non solo tecnicamente, ma anche mentalmente, favorendo l’incontro e la comprensione fra culture diverse. Ma possono favorire anche la disinformazione, la manipolazione, diventando un potentissimo veicolo di propaganda e odio verso il diverso. Cosa che sta accadendo sempre più frequentemente.

Lo strumento, quindi, non è di per sé né il problema, né la soluzione. La questione cruciale è il suo rapporto con noi, la nostra capacità di comprendere limiti e potenzialità dell’innovazione che introduciamo
nelle nostre vite. Dobbiamo sempre valutare se oltre a procurare crescita industriale (che certamente può migliorare il modo di lavorare, produrre, spostarsi, vivere), al tempo stesso non abbiano anche conseguenze che aggravino i livelli di inquinamento e accrescano la produzione di rifiuti di ogni genere.

Per questo sta a noi esseri umani ricominciare a porre le domande giuste. Sta nell’ordine naturale della nostra tecnologia la capacità di formulare domande. Siamo noi la specie che si pone interrogativi esistenziali, che indaga il senso delle cose, dell’esistenza, che legge i segnali e intercetta quelli che portano al futuro. Non sono di certo le macchine. C’è da domandarsi, allora, se sprecando il nostro tempo e la nostra dotazione tecnologica perseguendo futilità che sono oltretutto altamente inquinanti, non sottovalutiamo la nostra responsabilità individuale nei confronti del destino di tutta l’umanità. Impiegandolo per ritrovare la consapevolezza del nostro ruolo nel mondo potremmo tornare
a riconoscerci abitanti della Terra recuperando così l’essenza della nostra specie.

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