loading

Dove stiamo andando?

“Tutti noi esseri umani dovremmo unirci, aiutarci sempre, dovremmo godere della felicità del prossimo. Non odiarci e disprezzarci l’un con l’altro. In questo mondo c’è posto per tutti. La natura è ricca e sufficiente per tutti noi. La vita può essere felice e magnifica, ma noi l’abbiamo dimenticato. L’avidità ha avvelenato i nostri cuori, fatto precipitare il mondo nell’odio, condotti a passo d’oca verso le cose più abiette. Abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi. La macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà, la scienza ci ha trasformati in cinici, l’abilità ci ha resi duri e cattivi. Pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchine ci serve umanità, più che abilità ci serve bontà e gentilezza. Senza queste qualità la vita è vuota e violenta e tutto è perduto”.

Questo brano è oltremodo attuale, vero? Eppure, non lo è. Almeno non in senso cronologico visto che è datato 1940.
È un brano contenuto nel monologo finale de “Il grande dittatore”, film scritto, prodotto, diretto e interpretato da Charlie Chaplin, che è stato ed è tuttora considerato se non il migliore, uno dei migliori discorsi all’Umanità che siano mai stati scritti. Un finale capolavoro di un film capolavoro che, da un lato ottenne due candidature all’Oscar, e dall’altro, dopo la guerra, nonostante il grande successo di pubblico e critica, rese la vita di Chaplin negli USA sempre più difficile. La “caccia alle streghe” che il senatore Joseph McCarthy gli scatenò contro, alla fine gli costò il permesso di rientrarvi per fantomatici “gravi motivi di sfregio della moralità pubblica e per le critiche al sistema democratico del Paese che pure accogliendolo gli aveva dato celebrità e ricchezza”. Sebbene la sua carriera a Hollywood a quel punto si era conclusa, Chaplin non rinunciò mai a mettere in evidenza le contraddizioni che leggeva nella società del suo tempo.

Dove stiamo andando?

E noi oggi, nonostante questo film, questo discorso e soprattutto nonostante i molti decenni trascorsi, dove stiamo andando? Abbiamo scelto le macchine o l’umanità?
Per fare un punto della situazione attuale voglio partire da un recentissimo servizio pubblicato dal New York Times, che mi ha molto colpito. La riflessione fondamentale sulla quale l’intero servizio si impostava non può lasciarci né indifferenti né tiepidi.
“Nel tentativo di porre rimedio al digital divide – scrive il quotidiano – potremmo averne prodotto un altro; uno in cui nelle famiglie a più basso reddito il peso dei principi di base dell’interazione umana, come le lunghe conversazioni, il prolungato contatto visivo, le manifestazioni di affetto o il gioco, è sempre più a carico di schermi e assistenti vocali che vanno a sostituire i genitori, gli insegnanti e gli operatori sanitari paradossalmente più costosi”.
Spaventa, vero? Pensare che ciò che di maggior valore abbiamo avuto da bambini, l’abbraccio della mamma, le favole lette dai nonni, quattro calci a un pallone nel parchetto dell’oratorio con i papà, finanche le ramanzine per qualche birichinata, già oggi e ancor più a tendere, è sostituito da uno schermo o da un assistente vocale. Ma com’è andata? Per rispondere dobbiamo fare un salto indietro nel tempo.

Nel 1984 il costo del primo computer Mac di Apple era di 2.500 dollari, l’equivalente degli oltre 6.000 dollari di oggi. Oggi invece un Chromebook può essere acquistato sulla maggior parte degli store online per meno di 200 dollari. Questo vuol dire che oggi, a fronte di un hardware molto ma molto più avanzato, il costo al contrario è sceso drasticamente, circa un ventesimo rispetto a trent’anni fa. Il che, tradotto, significa possibilità di accesso pressoché universale. Alcune statistiche ci dicono che in tutto il mondo, il 96% degli utenti di Internet possiede un dispositivo smartphone e il 70% possiede un laptop o un PC. Quindi, quegli strumenti che solo pochi anni addietro erano considerati “premium”, cioè riservati alle persone più patrimonializzate, ora sono per tutti.

La tecnologia è democratica?

I dati dunque ci rivelano che la tecnologia ha assunto il ruolo formidabile di democratizzatore.
Evviva! Ma quanto vale? O meglio, quanto ci costa?
In primo luogo, avendo tutti accesso al web ed essendo diventati tutti sempre più dipendenti, il primo costo è in termini di tempo: quasi sette ore di ogni nostra singola giornata. Tuttavia, pur rendendoci conto che questo livello di connessione quasi costante ha effetti negativi sulla nostra salute, sul nostro sonno, sulle relazioni sociali, non sappiamo farne a meno e anzi, al contrario lo potenziamo: se, per fare un esempio, nel 2017 gli utenti globali internet che hanno usato uno strumento con comando vocale erano il 34%, nel 2019 lo sono stati il 43%. C’è una ricerca di Capgemini che addirittura rileva come i consumatori d’oltreoceano siano disposti a fidarsi di prodotti consigliati da assistenti digitali tanto quanto dai venditori in carne e ossa.

Ma c’è un altro dato secondo me ancora più esemplificativo del processo di sostituzione dell’interazione umana con la tecnologia. Secondo una ricerca di Common Sense Media, un’importante organizzazione no profit americana che opera a sostegno dell’istruzione dell’infanzia, i bambini più piccoli nelle famiglie a basso reddito spendono davanti a schermi quasi il doppio del tempo rispetto a quelli delle famiglie più agiate. Anche se altre ricerche altrettanto accreditate ci dicono che più tempo passato davanti a smartphone, pc o TV, in particolare in giovane età, è associato ad alti tassi di ansia e depressione.

Quando diventeremo tutti consapevoli di questo processo?

Sembrerebbe che negli Stati Uniti, in Canada, in Australia, in Giappone e anche in Europa, il modello si sia polarizzato: una minore quantità di tempo passato in compagnia di schermi e dispositivi corrisponde ai contesti familiari con redditi più elevati in cui si registrano oramai da tempo anche fenomeni di autoesclusione volontaria dai social media. Dunque, sulla scorta di questa informazione possiamo affermare con ragionevole certezza che disconnetterci potrebbe configurarsi come un grande lusso che però solo pochi possono concedersi. Ed ecco allora emergere in maniera assoluta un forte tema di disuguaglianza che purtroppo, come abbiamo visto sino ad ora, assume molte e più variegate sfumature, poiché va a inglobale i termini di opportunità, accessibilità, prospettive, possibilità, aggiungendo complessità a complessità. Schopenhauer diceva che «tutti prendono i limiti della loro visione per i limiti del mondo» e noi oggi stiamo commettendo questo gravissimo errore: ridurre il mondo dei nostri figli ai limiti della visione di uno schermo, delle idee e delle convinzioni che in esso circolano e che includono solo ciò che agli intenti di quello schermo corrisponde e conviene. Così facendo affermiamo un modello di persona che non avrà mezzi per rispondere alle pressioni e alle dinamiche sociali reali, e quindi esterne a quel sistema chiuso e autoreferenziale con il quale ci siamo fatti sostituire, perché ha la sua debolezza proprio nei confini entro i quali è cresciuto e si è sviluppato.

Dunque, che fare?

L’unica strada è ancora una volta l’educazione. Tutti dovremmo darci l’opportunità di continuare a studiare e a educarci al principio del costante miglioramento. Tutti possiamo tornare a mettere l’uomo al centro di ogni sistema e con l’uomo anche i valori universali che lo abitano. Tutti dobbiamo fare in modo che ogni persona guidata da questi valori universali, a sua volta, si faccia carico degli interessi collettivi contribuendo a generare amore, rispetto e gratitudine. Seguitemi e vedremo insieme come.

 

Puoi seguire Oscar Di Montigny nel suo sito e nei suoi canali social
Sito: www.oscardimontigny.it/
Twitter: @oscardimontigny

Facebook (profilo personale): facebook.com/oscar.dimontigny
Facebook (pagina): facebook.com/DiMontigny/
Instagram: @oscardimontigny